venerdì 10 giugno 2016

"Solo Dio perdona" di Nicolas Winding Refn


La violenza e Nicolas Winding Refn. 
Una storia d’amore con un legame incredibilmente profondo. 
L’occhialuto regista danese riesce a dirigere la violenza con un’eleganza sopraffina, ma soprattutto riesce a dirigerla in tantissimi modi diversi: la racconta tramite dei pusher danesi nella trilogia cult, omonima; la racconta tramite un personaggio fuori dalle righe come Charles Bronson; la può raccontare con delle atmosfere noir romanzate come fatto in “Drive”.
Nel 2013 Refn decide di raccontare la violenza in un modo più implicito… e gli snob di Cannes, a fine visione, criticarono pesantemente il regista con dei fischi tanto assordanti quanto immeritati.
Ladies and Gentlemen, per la regia di Nicolas Winding Refn, “Solo Dio perdona”.


Refn se ne frega di tutto e di tutti e, dopo il successo di critica (proprio a Cannes due anni prima) e di pubblico, decide di fare qualcosa di completamente diverso prendendo tutte le idee più intriganti nelle sue precendenti opere, sviluppandole e trasformandole in un’idea puramente underground.
Se in “Bronson”, la violenza è il veicolo che usa per giungere all’arte, qui, in “Solo Dio perdona”, Refn prende la violenza e la tratta come un’arte con delle regole proprie e cinematograficamente anticonvenzionali.
Estremizza all’inverosimile le scelte stilistiche che c’erano in “Drive” e prosciuga la narrazione e i dialoghi in maniera ancor più radicale di quanto già fatto in “Valhalla Rising”.
Refn cambia completamente prospettiva e sceglie di intraprendere la strada di un cinema che vive in un suo mondo ben preciso e che va aldilà del bene e del male, dirigendo un film che se ne sbatte delle idee esplicative del mondo del cinema mainstream (soprattutto Hollywoodiano) mettendo in scena una storia di vendetta puramente implicita ed incredibilmente ermetica: la recitazione degli attori e, specialmente di uno degli attori più in voga del momento come Ryan Gosling, costretto a comunicare esclusivamente con il corpo, con una o massimo due espressioni facciali; l’incredibile simbolismo, il tutto appesantito da diversi riferimenti alla psicanalisi (la scena in cui il personaggio di Gosling lacera l’addome della madre e inserisce la mano nel profondo taglio è di una potenza evocativa pazzesca); l’ossessivo gioco di luci (già intravisto nella seconda e, purtroppo, sconclusionata parte di “Fear X”), che immerge tutto il revenge-movie con dei continui e fortissimi contrasti rendendo la pellicola quasi un quadro in movimento impressionista; la colonna sonora, composta da Cliff Martinez, è incredibilmente azzeccata con queste sonorità dark-ambient che raggiungono il picco massimo con il pezzo “Wanna fight”, che accompagna una delle scene d’azione meno spettacolari di sempre, ma, paradossalmente, una delle più artistiche di sempre.


Capisco che, specialmente dopo il grande successo di “Drive”, gran parte del pubblico si aspettava un suo seguito ideologico, mentre il regista ha scelto tutt'altra strada, realizzando un film fatto di pochi dialoghi e di molti, moltissimi sguardi.
Non è un film facile e di diretta lettura, anzi, è un film molto crudo e difficilmente fruibile nella sua ingegnosa ricercatezza ma d’impatto artistico incredibilmente notevole che rende la violenza, un’arte meravigliosamente contemplativa.

“Chi si aspetta un film di facile visione che eviti pure il mio cinema. O con me o contro di me.” – Nicolas Winding Refn

1 commento:

  1. Anche qui mi trovo d'accordo. NWR sta ponendo il suo standard molto in alto, e si nota sempre di più. Maestoso.

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